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Se c’è una sola persona ad ascoltarmi, sto facendo Public Speaking?

Se c’è una sola persona ad ascoltarmi, sto facendo Public Speaking?

Se durante un meeting c’è una sola persona ad ascoltarmi, sto facendo Public Speaking? Dipende dal ruolo del mio interlocutore, e dal luogo in cui ci troviamo (ad esempio l’ufficio).

Come ci ha insegnato il sociologo Erving Goffman, la vita è fatta di situazioni di “ribalta” e di “retroscena”, e ciascuno di noi mette in scena dei ruoli in base alle circostanze.

Se viviamo quell’incontro a due come un’occasione di “ribalta”, in cui mettiamo in scena una qualche forma di rappresentazione, bene, allora anche quel singolo interlocutore potrà diventare il mio pubblico, e starò facendo Public Speaking.

Se al contrario il contesto sarà di “retroscena”, ovvero metterò in atto col mio interlocutore comportamenti più confidenziali, di équipe, potrebbe non esserci, in senso stretto, Public Speaking.

Questo, per il semplice fatto che non starò considerando il mio interlocutore come “pubblico”, ma starò cooperando con lui per creare una successiva rappresentazione (è il caso in cui lavoriamo con un collega a un progetto da presentare, questa volta sì, a un pubblico specifico).

Sintetizzando, possiamo dire che a determinare la natura del Public Speaking non è tanto il numero di persone che ho davanti, ma il ruolo specifico che assumerà l’interlocutore rispetto a me.

© Patrick Facciolo – Tutti i diritti riservati, vietata la riproduzione.

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Parole che non si capiscono: il “cruscotto informativo”

Parole che non si capiscono: il “cruscotto informativo”

Anche questa settimana la politica ci regala parole che non si capiscono. Questa volta è il turno del “cruscotto informativo“, proposto dal Ministero dell’Istruzione in vista della riapertura delle scuole.

Leggo sul Messaggero: “Nella nuova bozza scuola si prevede l’utilizzo di un cruscotto informativo che segnalerà le criticità nelle aule, e ci sarà un coordinamento in cabina di regia Covid con le Regioni“.

Ma che cosa sarebbe, di grazia, un “cruscotto informativo”?

Secondo Treccani, un cruscotto è:

Nei veicoli a trazione animale, riparo di cuoio posto presso il parafango per riparare il cocchiere dagli spruzzi. Nei veicoli a motore terrestri e aerei, e in alcuni tipi di natanti (motoscafi e simili), quadro o pannello in cui sono raccolti gli strumenti di controllo, ed eventuali organi di comando“.

Ora, se scegliamo di usare la parola cruscotto per comunicare significati diversi da questi, stiamo utilizzando una metafora. Non chiara.

Se fermassi un passante in mezzo alla strada e gli chiedessi: “Lo sa che il Ministero dell’Istruzione sta pensando a un cruscotto per l’apertura delle scuole?”, ecco, non mi stupirei se pensasse al contachilometri della sua macchina. E avrebbe pure ragione.

Basterebbe chiamare le cose con il loro nome, e sarebbe tutto più facile.

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Perché i professionisti della psicologia non possono definirsi “esperti”

Perché i professionisti della psicologia non possono definirsi “esperti”

Di tutte le definizioni che mi danno in qualità di Dottore in tecniche psicologiche, quella di “esperto di Public Speaking e comunicazione” è quella che amo di meno.

Perché pensiamoci bene: chiunque può definirsi esperto in un determinato settore. E questo a prescindere dalla propria formazione e dal proprio percorso professionale.
 Se ci facciamo caso, sui social siamo circondati da “esperti”. Quante volte leggiamo biografie che contengono la formula “esperto in” qualcosa?

Già, ma chi attribuisce queste “patenti” ai professionisti, in modo uniforme e univoco per tutti?

Perché gli psicologi non possono definirsi esperti?

Su questo tema, il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, già nel 2007 nel cosiddetto “Atto di indirizzo sulla pubblicità informativa delle attività professionali degli iscritti alla sezione A e B dell’Albo”, segnalava che agli iscritti all’Ordine degli Psicologi “non è consentito utilizzare il termine “esperto”, in quanto fuorviante per la trasparenza del messaggio”.

Anche la Commissione Deontologia dell’Ordine degli Psicologi della Regione Lombardia, il 4/2/2016, nella risposta a un quesito relativo a questo aspetto, ha chiarito come il professionista della psicologia deve esibire le proprie qualifiche:

“La pubblicità informativa può indicare i titoli di studio, tra i quali <<titoli di formazione universitari post – laurea o post- laurea quinquennale o specialistica o magistrale come i corsi di perfezionamento scientifico o di altra formazione permanente o ricorrente come : “Master universitario di primo livello in…” “Master universitario di II livello in …” ai sensi della L. n. 34/1990, del DM 509/1999 e del DM 270/2004>> (art. 4).”

Perché è una precisazione importante per gli utenti

Credo queste puntualizzazioni siano importantissime: le competenze del professionista vanno documentate con gli studi, le qualifiche e le esperienze professionali, che rappresentano parametri misurabili.

Sarà l’utenza a stabilire se ritiene il dottore in

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L’emozione può farci dimenticare l’inno nazionale?

L’emozione può farci dimenticare l’inno nazionale?


Si possono dimenticare le parole dell’inno nazionale per l’emozione? La scienza ci dice di sì.

Potrebbe essere accaduto l’altra sera al cantante Sergio Sylvestre, durante la sua esibizione prima della finale di Coppa Italia, in diretta su Rai Uno.

Se gliele chiedessimo adesso le parole dell’inno, probabilmente le ricorderebbe: possiamo ricordarci le parole di un testo fino a prima di una performance, ma potremmo non riuscire a ricordarle nel momento in cui ci servono.

In momenti di forte stress vengono rilasciate nel cervello importanti quantità di cortisolo, un ormone il cui eccesso condiziona significativamente la capacità dell’ippocampo di richiamare i ricordi (“Glucocorticoids Decrease Hippocampal and Prefrontal Activation during Declarative Memory Retrieval in Young Men”, 2005).

Questo il motivo per cui a diverse persone capita di prepararsi a memoria un discorso da fare in pubblico, per poi non riuscire a ricordarlo durante la presentazione.

È anche il motivo per cui in situazioni emotivamente attivanti molti cantanti ricorrono ai “prompter”, dispositivi che proiettano il testo della canzone su un grande schermo, in modo da poterlo leggere mentre eseguono il brano.
Non perché non lo sappiano a memoria, ma perché lo stress, quando ci si mette, può fare brutti scherzi.

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