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Il discorso di Renzo Piano per il nuovo ponte di Genova: la video analisi di Patrick Facciolo

Il discorso di Renzo Piano per il nuovo ponte di Genova: la video analisi di Patrick Facciolo

Recentemente l’architetto Renzo Piano ci ha insegnato come si fa un discorso perfetto. Sguardo rivolto verso il pubblico, nessun foglio prestampato davanti a sé. Solo riflessioni chiare, e le emozioni del momento.

Dopo un momento iniziale di storytelling (di narrazione) sulla storia del nuovo ponte di Genova, ha saputo usare le parole con grande sapienza (un ponte “costruito con rapidità, ma senza fretta”).

Ha fatto uso di similitudini (“un ponte che sia come una nave”) senza ricadere in troppe metafore, e ha coinvolto il pubblico (“c’è una cosa che voglio dirvi”).

Ha usato parole semplici e chiare (“È stato il più bel cantiere che ho avuto in vita mia”, “il Paese ha mostrato la parte buona”, e ancora: “costruire è una bellissima cosa”).

Ma soprattutto ha usato parole ad alto valore d’immagine, che creano immagini mentali efficaci: “I muri non bisognerebbe costruirli, quelli no, però i ponti bisognerebbe costruirli, farne tanti”. E ancora: “Questo ponte è stato costruito in acciaio, ma è stato forgiato nel vento”.

Per poi chiudere con un invito all’azione finale: “Auguro a questo ponte di essere amato, mi auguro che sia adottato dalla gente”.

Un “ponte che è semplice e forte”, ha detto Renzo Piano.

Così come è stato semplice e forte il suo discorso. In 6 minuti e 42 secondi.

© Patrick Facciolo – Tutti i diritti riservati, vietata la riproduzione.

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Perché Obama non cita più Trump nei suoi discorsi

Perché Obama non cita più Trump nei suoi discorsi

Negli ultimi tempi Barack Obama non cita più Donald Trump nei suoi discorsi in pubblico. Anziché pronunciare il suo nome, se la prende genericamente con il “Governo federale”.

Qual è la motivazione? Perché certe volte i politici smettono di citare i loro avversari nei propri discorsi?

Per non alimentare continuamente negli ascoltatori l’immagine mentale dell’avversario. Se dico il nome di Trump lo evoco direttamente, e il mio ascoltatore ne immagina la faccia. Dandogli più notorietà ogni volta che lo nomino.

Un tentativo che aveva fatto, a modo suo, anche Walter Veltroni nel 2008.

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Se hai bisogno di spiegarlo, non funziona

Se hai bisogno di spiegarlo, non funziona

Se hai bisogno di spiegarlo, non funziona.

È la frase ricorrente che dico ai miei corsisti quando preparano i loro discorsi in pubblico. Specie quando usano metafore, sottintesi, frasi difficili da capire.

E spesso per questo vengo preso per un cinico senza cuore. In realtà amo le figure retoriche, ma da professionista che ha fatto la radio per tanti anni, ho imparato che se le cose non vengono dette in modo chiaro, non arrivano al pubblico.

Le metafore, i sottintesi, i modi di dire sono belli e utili nell’arte, in letteratura, in tutti i contesti in cui il pubblico “sceglie” consapevolmente e intenzionalmente di dare attenzione al comunicatore, dedicando tempo e concentrazione.

Quando parliamo in pubblico, invece, spesso siamo noi a dover competere per quell’attenzione e coinvolgere chi ci ascolta. E la disponibilità di attenzione da parte del pubblico non è affatto scontata.

Per questo motivo, ancora una volta: “se hai bisogno di spiegarlo, non funziona”. E se comunque hai bisogno di spiegarlo, spiegalo, ma non lasciarlo mai sottinteso.

Frasi piane, parole chiare, linguaggio semplice: ecco il modo per stare vicini al nostro pubblico, senza escludere nessuno.

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No, gli individui non si dividono in visivi, uditivi e cinestetici

No, gli individui non si dividono in visivi, uditivi e cinestetici

No, il mondo non si divide in visivi, uditivi e cinestetici.E saperlo è molto importante anche per chi fa Public Speaking.

Perché ci permette di non avere preconcetti sul nostro pubblico.

La tesi per cui le persone si dividerebbero tra chi preferisce immagini, chi suoni, chi sensazioni, non è sperimentalmente dimostrata. E va detto in modo chiaro.

 

Lo studio sperimentale del 2009

Già nel 2009 un report pubblicato sulla rivista Psychological Science in The Public Interest riportava i risultati di diversi ricercatori di psicologia dell’apprendimento. Tra questi: Mark McDaniel dell’Università di Washington, Hal Pashler dell’Università di San Diego, e Robert Bjork dell’Università della California. Essi hanno dimostrato sperimentalmente come questa suddivisione dei metodi di apprendimento non sia sostenibile.

Hanno concluso che gli studi che sono stati fatti su questo tema non soddisfano i requisiti di randomizzazione. Ovvero non soddisfano requisiti di assegnazione casuale delle persone ai vari gruppi di ricerca. Tali requisiti devono risultare infatti sufficienti per rendere credibili le loro conclusioni.

 

L’importanza di farci domande su questioni (apparentemente) semplici

Questo caso, come altri simili, ci insegna che quando un modello esplicativo della realtà (un modo per spiegare ciò che ci circonda) è troppo semplice da capire, è il momento per farci delle domande.

Quando ci piace una teoria, ci affascina, ed è semplice da comprendere, è importante saperci fermare un momento e chiederci: “Siamo sicuri che sia proprio così?”.

Questo perché la realtà non è semplice, è articolata.

 

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